Vogliamo altro. Appunti per una critica al concetto di produttività, di lavoro e di cittadinanza
Riflessioni sullo sciopero generale dell'11 marzo 2011
Se il lavoro va perdendo le caratteristiche del lavoro per assumere quella della vita che cosa dobbiamo fare noi, donne e uomini, nel presente? Per poterci riappropriare delle nostre vite e dei nostri desideri dobbiamo procedere a bombardare le radici stesse del lavorismo che ci ha costruiti. Anch’esso ha contribuito a fare in modo che il lavoro esondasse in modo indifferenziato dai limiti suoi propri. Senza una critica radicale al concetto stesso di produzione e di norma socio-economica, senza una messa in discussione di queste fondamenta, non solo non potremo liberarci, né cambiare di segno al lavoro e al sistema, ma viceversa dovremo rassegnarci alla colonizzazione progressiva di ogni spazio vitale, all’asfissia totale.
Le forme di asservimento attuali della forza lavoro significano la negazione diretta dei diritti di cittadinanza anche per queste fasce di lavoratori e di lavoratrici, attraverso la frammentazione e l’intermittenza, che vuole dire svalorizzazione, negazione delle competenze, sudditanza agli immaginari, alle ideologie totalitarie del “lavoro che manca”, nell’ingrassare delle gerarchie, dei signoraggi, delle rendite di posizione. Questa fascia di lavoratori, sempre più spesso, assiste alla subordinazione di tutti i diritti alla condizione lavorativa, tramite lo sviluppo di meccanismi di ricattabilità e di controllo sociale (mentale) resi sempre più spessi, impenetrabili, dalla precarietà.
L'attualità non fa che regalarci esempi molto espliciti, in questo senso: quando non sarà la precarietà a piegarci, ci saranno straordinari coatti, pause più corte, meno giorni di malattia, mobilità selvaggia… Noi vogliamo altro.
(* Rielaborazione da un intervento al Macba di Barcellona, giugno 2010.di Cristina Morini )