Just Eat, congelamento o licenziamento
Riportiamo la testimonianza di un rider catanese, ennesima testimonianza delle nuove forme di schiavitù in atto nonostante le rassicurazioni governative.
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Catania 20 marzo, la pioggia battente, le strade che diventano fiumi, i crateri nascosti che si formano per strada. Comincia un altro turno con Just Eat, le consegne devono essere fatte in bicicletta o motorino.
Molti dei lavoratori denunciano all’azienda il fatto che sono impossibilitati a recarsi al luogo dove dovrebbe cominciare il turno a causa delle condizioni della viabilità e perché rischioso guidare il proprio mezzo in quelle condizioni.
La risposta dell’azienda fa raggelare il sangue e mette in difficoltà quei lavoratori che basano la propria sussistenza sul misero stipendio che l’azienda offre: “Se non ti rechi allo starting point la tua assenza sarà considerata ingiustificata e non ti verranno riconosciute le ore”.
Molti dei colleghi, costretti dalle comunicazioni aziendali, tra mille pericoli si recano allo starting point e poi comincia il turno e insieme al turno iniziano ad essere inviati all’azienda messaggi dove si chiede di sospendere il servizio, dove si chiede la possibilità di fermarsi perché impossibilitati a continuare per le condizioni avverse, il tutto correlato da foto e video come se la parola di un lavoratore non valesse nulla.
Alle 20:20 il laconico messaggio sulla chat aziendale da parte del diretto superiore, il coordinator: “Come scritto precedentemente il servizio è attivo e bisogna procedere, avvisate il capitano in turno e non me se avete delle problematiche particolari”.
I colleghi tra mille difficoltà e rischiando la propria incolumità e la propria sicurezza continuano il servizio, alcuni si fermano per cercare riparo, altri cercano riparo in zone all’asciutto e poi continuano i messaggi disperati e insistenti dei colleghi che manifestano l’impossibilità di lavorare, addirittura c’è chi comincia a dire che sta male e non ha più sensibilità alle mani e ai piedi.
Alle 20 e 22 l’aberrazione, il messaggio che cancella qualsiasi diritto alla sicurezza di un lavoratore: “Chi non se la sente comunichi alla dispo che non riesce a proseguire, non vogliamo eroi. Ciò però comporterà la chiusura del turno ed una nota disciplinare”.
Chiusura del turno significa che la misera retribuzione che prenderai per quel turno non ti sarà data e la nota disciplinare è l’anticamera del licenziamento.
Il mio collega ventenne, studente universitario, continua il suo turno con la bicicletta tra strade che diventano fiumi, schivando macchine che non riesce a vedere per via dell’acqua che ti appanna gli occhi, i suoi vestiti che non sono dpi si inzuppano le sue scarpe, i suoi guanti anche.
Miracolosamente la sua bicicletta elettrica non si guasta (se per via di tutta l’acqua presa si fosse danneggiata, le spese sarebbero state carico suo), finché mezz’ora dopo il mio caro amico e collega perde la sensibilità alle mani e ai piedi, i denti cominciano a battere e non si fermano più, i brividi di freddo diventano quasi convulsioni.
Avvertendo quei sintomi si reca in guardia medica dove resterà per più di 3 ore, circondato da stufe e con coperte asciutte addosso, con un principio di ipotermia.
La domanda che ci facciamo è se questo si possa chiamare “lavoro” se la gestione di questi esseri umani possa essere compatibile con la parola “dignità”. In Italia chi è che permette che accada tutto questo, di chi sono le responsabilità?
Noi non possiamo accettare il ricatto a scapito della sicurezza dei lavoratori. Crediamo sia arrivata l’ora di dire basta alla ricerca del profitto a tutti i costi a scapito della sicurezza dei lavoratori rischiando la loro incolumità.
Non siamo davanti ad una mala gestione o a errori di “responsabili” ma davanti a politiche aziendali che esprimono chiaramente come il profitto debba essere salvaguardato a scapito della sicurezza dei lavoratori.
Dobbiamo aspettare il morto perché qualcosa cambi? Ci auguriamo tutti di no ma è ciò che temiamo.
USB Slang